09/10/08

Guida al panico del 2008

Una guida ragionata alla letteratura accademica su crisi finanziarie e contagio, premessa per meglio comprendere il dibattito che infuria sui media.

Questi sono giorni in cui gli economisti cercano di parlare poco con gli estranei. Il meglio che ci possa capitare, ad ammettere la nostra professione, è di assere assediati da domande: ma non si poteva prevedere la crisi? Di chi è la colpa? Cosa succederà adesso?

Vediamo se la letteratura accademica ci puo' aiutare a capire. Premetto che la scelta dei riferimenti bibliografici contenuti nel post non vuole essere esaustiva. È invece una lista molto soggettiva: questo è quello che io mi sono andato a rivedere in questi giorni. In particolare esiste una quantità di letteratura economica sul contagio. Non ne parlo perché non mi venuta nessuna voglia di andarmela a rivedere; a buon intenditor poche parole.

Si poteva prevedere? Crisi finanziarie cicliche implicano che a predirne una prima o poi si indovina. Uno dei primi economisti a studiare e comprendere gli effetti di una crisi del mercato immobiliare è stato Robert Shiller (Yale), che però ha iniziato a predire crisi dall’inizio degli anni ’90. Tra coloro che hanno previsto più lucidamente la crisi finanziaria di questi giorni ci sono anche Nouriel Roubini (NYU, ma scrive su RGE) e Paul Krugman (Princeton, scrive sul New York Times). Entrambi hanno previsto però anche una gravissima crisi economica, previsione che non si è, al momento, ancora verificata.

Come economisti non ci interessa tanto fare previsioni quanto fare analisi, capire cosa è successo per evitare che succeda ancora. Priviamoci a farlo in un solo paragrafo. La Fed ha inondato i mercati di liquidità. Le banche hanno fatto enorme uso della leva finanziaria. Hanno finanziato un boom dei valori immobiliari dal 2001 distribuendo il rischio nei mercati finanziari in forma di cartolarizzazioni. Titoli derivati sulle cartolarizzazioni (ad esempio CDS - Credit Default Swaps) hanno generato una complessa catena di posizioni finanziarie legate ai valori degli immobili su cui i mutui sono stati accesi. Il crollo dei valori immobiliari negli Stati Uniti ha ingenerato il crollo di valore di tutti questi titoli. Per fatti e interpretazioni utili consiglio i recentissimi paper di Gary Gorton e di Kristopher Gerardi, Andreas Lehnert, Shane M. Sherlund, and Paul Willen.

Ma come si è arrivati sin qui? Come è possibile una esposizione dei mercati finanziari al rischio immobiliare tale da generare questa crisi? Una questione fondamentale, a questo proposito, è quella della struttura degli incentivi impliciti nella compensazione del management. Questi incentivi infatti, se insufficienti, possono aver indotto il sistema finanziario a una eccessiva esposizione al rischio immobiliare. Lucian Bebchuk (Harvard) da tempo sostiene la tesi secondo cui i manager godono di enormi rendite, da cui ricavano compensazioni eccessivamente elevate. Ma ciò che determina gli incentivi all’esposizione al rischio non è tanto il livello quanto la sensitività della compensazione dei manager al valore della società. È importante che i manager guadagnino quando la loro società acquista valore e perdano quando ne perde. Gli aneddoti di questi giorni a questo proposito sono interessanti: i) si stimano in ben oltre 4 miliardi di dollari le perdite in quest’ultimo anno dei 16 maggiori manager del mondo finanziario americano (da un articolo del NYTimes la settimana scorsa che non trovo più); ii) si riporta che i manager di Lehman si stiano vendendo quadri e case. (La reazione, "chissà quanti gliene rimangono di case e quadri" è poco rilevante e molto populista: non stiamo cercando di suscitare pena per i ricchi manager, ma stiamo argomentando che hanno perso parecchio, e stiamo speculando che ne avrebbero fatto volentieri a meno). Più rilevante è che molte sono le analisi empiriche riguardanti ogni aspetto dei sistemi di compensazione dei manager: dai primi lavori di Michael Jensen e Kevin J. Murphy (USC) a quelli recenti di Xavier Gabaix e Augustin Landier (NYU) e di Gian Luca Clementi (NYU). Per quanto la discussione sia aperta (questo ad esempio fa le scarpe a Gabaix-Landier), questi studi tendono a documentare, a mio parere convincentemente, una sensitività della compensazione dei manager in linea con quanto richiesto ad indurre una esposizione al rischio non eccessiva.

Come si spiegano allora concentrazioni di rischio tali da generare il timore del crollo sistemico? Una possibile spiegazione sta nell’orizzonte temporale degli incentivi. Incentivi troppo a breve termine possono avere infatti effetti perversi: i) innanzitutto, possono indurre i manager a trascurare i rischi futuri, soprattutto i rischi sistemici nel medio periodo, appunto; si veda ad esempio Patrick Bolton, José Scheinkman e Wei Xiong (il primo a Columbia e gli altri due Princeton); e ii) possono anche indurli a manipolazioni del valore dell’impresa, attraverso pratiche contabili poco trasparenti; si veda as esempio Lin Peng e Ailsa Roell. Incentivi a breve termine possono essere anche il risultato di deviazioni comportamentali (psicologiche) dei manager; se veda al proposito la rassegna di Nick Barberis e Dick Thaler (ho già detto qui quello che penso di questa letteratura).

E la bolla immobiliare? Questa crisi finanziaria non si può comprendere appieno senza una spiegazione della dinamica dei prezzi immobiliari, della probabile bolla speculativa che li ha fatti crescere e poi crollare. Le bolle speculative sono difficili da ottenere teoricamente e da identificare empiricamente (si veda su questo Manuel Santos e Mike Woodford): ancora si discute se fosse una bolla quella dei titoli tecnologici del 1999-2000 al NASDAQ. Recenti analisi, ad esempio quelle di Patrick Bolton, José Scheinkman, e Wei Xiong e di Dilip Abreu e Markus Brunnermeier (Princeton), collegano le bolle speculative a comportamenti inefficienti dei principali attori nei mercati finanziari; comportamenti dovuti in parte proprio a quegli incentivi di breve periodo che li inducono a cercare rischi eccessivi e a manipolare i bilanci. Non è facile stimare quanto questi incentivi perversi abbiano influito sulla “bolla immobiliare” e quindi sulla crisi finanziaria. Ma è chiaro che è su di essi principalmente che l’analisi economica suggerisce di agire con nuove forme di regolamentazione dei mercati e di trasparenza contabile.

In buona sostanza molte banche e istituzioni finanziarie detengono ora attività il cui valore è crollato. Ma soprattutto, la catena di posizioni finanziarie è così vasta e complessa che nessuno realmente conosce il valore delle proprie attività e tantomeno di quelle detenute da altri soggetti finanziari. Pradeep Dubey, John Geanakoplos e Martin Shubik (il primo a Stony Brook e gli altri a Yale) hanno iniziato a studiare questi problemi una quindicina di anni fa (John Geanakoplos unisce all’attivita’ di accademico quella di operatore a Wall Street; guarda caso nel mercato di mortgage backed securities). In queste condizioni il mercato del credito si congela: nessuno si fida a prestare danaro a nessun altro per timore che quest’ultimo sia particolarmente esposto, alla fine della catena, al rischio dei rendimenti sui mutui.

Che fare? Il congelamento del mercato del credito è il legame principale tra la crisi finanziaria e una possibile crisi reale. Come tagliare il legame? È necessario ristabilire quella trasparenza delle posizioni finanziare di banche e altre istituzioni finanziarie che permetta al mercato del credito di tornare a operare efficientemente. Solo dopo che abbiano realizzato le proprie perdite in modo trasparente le banche potranno ricapitalizzarsi e tornare a investire nell’economia reale.

In un certo senso, questo è l’obiettivo del piano del Tesoro e della Fed all’analisi del Congresso: comprare buona parte delle cartolarizzazioni sui mutui e dei titoli derivati ad essi legati in portafoglio alle banche così da renderne trasparenti i bilanci. Non solo, ma il Tesoro, non dovendo rispondere agli azionisti a breve termine, guadagnerebbe da una eventuale ripresa del mercato immobiliare nel medio periodo.

Sembra una grande idea. Ma ci sono due ordini di problemi. Il primo è il prezzo a cui questi strumenti finanziari saranno acquistati. Il piano originario prevedeva che fossero comprati a prezzi superiori a quelli di oggi di mercato, considerati frutto del panico e lontani dai loro “valori reali”. Questo sarebbe un diretto sussidio alle banche a spese dei contribuenti, una ricapitalizzazione a fondo perduto. È invece bene distinguere l’operazione di salvataggio immediata dal processo di ricapitalizzazione delle banche, così da incentivare le banche stesse a ristrutturarsi per meglio operare la ricapitalizzazione sul mercato. Il secondo problema che il Tesoro si troverà ad affrontare è che le banche conoscono meglio del Tesoro stesso il valore dei titoli in proprio possesso. Avranno incentivo quindi a vendere al Tesoro quelli di minor valore e più rischiosi, in modo da poter esse stesse godere del loro futuro incremento di valore una volta che la crisi sia risolta. Questo incentivo potrebbe limitare l’effetto del piano sulla trasparenza dei bilanci delle banche e in principio potrebbe invalidare il meccanismo di salvataggio stesso.

C'entra Tremonti? C'entra sempre Tremonti! Concludo con un commento riguardo al parallelo tra la crisi del ’29 e quella in corso, parallelo sempre più frequente in questi giorni, e spesso abusato dal nostro Ministro dell'Economia. La crisi del ’29 ha un posto fondamentale tra tutte le crisi finanziarie infatti soprattutto per quanto duramente ha colpito l’economia reale, per la “grande depressione” che ha generato. La più convincente analisi della “grande depressione”, ad opera di Hal Cole, Lee Ohanian (a Penn e a UCLA, rispettivamente), e di un gruppo di economisti alla Fed di Minneapolis, evidenzia quanto gli effetti del crollo dei valori azionari e delle banche sulla economia reale siano stati causati da vari provvedimenti di intervento del governo di New Deal; provvedimenti che hanno favorito una limitazione della concorrenza nei mercati dei prodotti e la sindacalizzazione del mercato del lavoro, e hanno sensibilmente aumentato la pressione fiscale. Purtroppo queste sono proprio le politiche di intervento propugnate dal ministro Tremonti: il «ritorno al pubblico» e alle «politiche keynesiane» (Corriere, 18 Settembre). Forse per questo egli ritiene «prudente non tener conto di quello che dicono gli economisti».

Dopo la rassegna della letteratura accademica da parte di Alberto è venuto il momento di cercare di riassumere ciò che hanno detto gli economisti che sono direttamente intervenuti nel dibattito di questi giorni. C'è stata un'enorme quantità di interventi, per cui la rassegna non potrà che essere parziale e selettiva. Come d'uso, i lettori sono invitati a usare i commenti per colmare i buchi. Trascureremo ovviamente gli interventi di Michele (qui e qui), assumendo che i lettori di nFA ne siano bene a conoscenza.

C'è stata relativamente poca discussione sulle cause scatenanti della crisi. Un buon posto per iniziare è questo intervento sul NYT di Diamond a Kashyap, scritto prima del piano Paulson e dopo il salvataggio di AIG e il fallimento di Lehman Brothers. L'intervento è quasi unicamente descrittivo, ma consente di capire almeno la meccanica degli eventi recenti.

Sembra esserci consenso generale sul fatto che l'attuale situazione è risultata da incentivi perversi all'interno del sistema bancario, che hanno portato all'assunzione di rischi eccessivi. Non è però chiaro perché tale sistema di incentivi è stato messo in piedi, e perché nessuno (né le autorità pubbliche preposte alla regolazione del sistema finanziario né gli azionisti delle banche) si è premurato di intervenire per tempo. Più o meno c'è anche accordo sul fatto che il principale problema di breve periodo sta nell'informazione asimmetrica che esiste al riguardo delle Mortgage Backed Securities (MBS), i titoli obbligazionari che hanno per rendimento i pagamenti dei mutui.

Il dibattito si è invece concentrato sulla valutazione delle proposte di policy.

Una minoranza propone di non fare assolutamente nulla, lasciare che le MBS trovino il loro valore nel mercato (se tale valore è basso, peggio per chi le ha comprate) e che chi deve fallire fallisca. Come è lecito attendersi, questi argomenti vengono avanzati soprattutto da giornalisti ed economisti di tendenza libertaria. La rivista Reason ha pubblicato vari interventi di tale tenore, questo articolo di Steve Chapman è abbastanza tipico. Reason ha anche ospitato un forum in cui vari economisti di tendenza libertaria hanno discusso sia le cause sia i possibili rimedi alla crisi, lo trovate qui. Un importante argomento di questa minoranza, a mio avviso non sufficientemente discusso, riguarda il reale impatto della crisi finanziaria sull'economia reale. La crisi della borsa del 1987, a differenza di quella del 1929, si è distinta per il suo scarso impatto sul PIL. Scetticismo sulle terribili conseguenze dei fallimenti bancari viene per esempio espresso da Steven Landsburg. Casey Mulligan, professore a Chicago, esprime simili dubbi sul suo blog. Peraltro, Alex Tabarrok, di George Mason University, ha segnalato come almeno finora (ed è un po' che la crisi dei subprime va avanti) il credito non sembra affatto essersi prosciugato, anche se i tassi di crescita si stanno riducendo (il blog Marginal Revolution è un altro posto dove si ospitano molti interventi scettici).

Si tratta però, appunto, di una minoranza. Per dirla con una battuta di Matt Yglesias ''nessuno è ateo in punto di morte e nessuno è per il libero mercato in tempo di crisi finanziarie'' (''they say there are no atheists in foxholes, and by the same token there are no free marketeers in a financial crisis''; come documento sociologico, leggetevi anche i commenti irati degli atei alla battuta, un'indicazione di quanto la religione venga presa assai più sul serio negli USA che in Italia). La maggioranza degli economisti intervenuti nel dibattito accetta l'idea che qualche tipo di intervento sia necessario, non fosse altro perché le pressioni politiche per un intervento sono tante e tali da non poter essere resistite. Ma quale intervento?

Anche accettando la premessa fondamentale del piano Paulson, ossia l'istituzione di una agenzia dedicata essenzialmente all'acquisto di MBS che hanno perso liquidità, i dettagli sono cruciali. La premessa fondamentale del piano è che la crisi sia una crisi di liquidità, che gli attuali prezzi di mercato delle MBS siano più bassi di quelli ''giusti'', e che il governo possa evitare la crisi finanziaria comprando a prezzi ''giusti'', o poco più bassi, le obbligazioni per poi rivenderle. Se così stanno le cose il piano non dovrebbe costare nulla ai contribuenti, che in effetti finirebbero per sfruttare una opportunità di arbitraggio che il mercato non riesce a sfruttare per problemi di liquidità (a sua volta dovuti all'informazione asimmetrica). Ovviamente la domanda da 700 miliardi di dollari è: come fa il governo a sapere quali sono i prezzi giusti? O, più esattamente, quali regole per l'acquisto deve adottare la nuova agenzia per evitare di pigliare fregature? E poi: veramente dobbiamo accettare le premesse fondamentali del piano? Non è meglio fare qualcosa di più, o di meno, o di diverso? In ciò che segue cercherò di raggruppare le diverse posizioni, seguendo l'aria di una vecchia canzone di Jannacci.

Quelli che il piano va bene così

Alcuni non si sono posti il problema, sostanzialmente dicendo: è un fatto che le MBS sono underpriced e il governo può con relativa facilità approfittare della situazione. Alla fine si sarà evitato il collasso finanziario e il costo per i contribuenti sarà ridotto. Il rischio di una crisi è troppo alto per farsi distrarre da dubbi. Su questa linea si è espresso il noto giornalista economico Robert Samuelson. Posizioni simili le trovate in questo articolo del WSJ di Andy Kessler, un practitioner. Sul lato più strettamente accademico segnaliamo invece un articolo anonimo sul blog di Greg Mankiw (che sulla vicenda non si sta sbilanciando) e articoli di Anne Krueger e Robert Shiller sul Washington Post. Shiller a dir la verità è un po' più articolato. Da un lato dice che l'intervento non sarebbe niente di straordinario, dato che anche negli USA si sono spesso visti nel passato simili interventi, e dall'altro sostiene l'opportunità di emettere nuovi tipi di strumenti finanziari che proteggano il comune cittadino contro i rischi macroeconomici, un suo vecchio cavallo di battaglia.

Quelli che i dettagli del meccanismo di vendita sono importanti.

La principale proposta per determinare i prezzi delle securities è quella di usare qualche tipo di asta (non credo valga la pena di spiegare ai lettori quali sarebbero i pericoli di lasciare discrezionalità ai gestori del fondo pubblico). Bernanke ha indicato che le securities verranno comprate mediante reverse auctions, ossia aste in cui il compratore annuncia di voler acquistare una data quantità di un certo tipo di titoli ed i venditori che intendono vendere i medesimi titoli offrono i prezzi a cui sono disposti a farlo. Nel caso vengano offerti per la vendita più titoli di quelli che si intende acquistare il prezzo ovviamente scende, creando un incentivo per i venditori (le banche, in questo caso) ad abbassare il piu' possibile il prezzo sui titoli di cui intendono disfarsi (vedere anche qui, per dettagli).

Dubbi sull'efficacia di tali aste sono stati avanzati, tra gli altri, dalla commentatrice Megan McArdle, dalla impresa di consulenza economica NERA e da Larry Ausubel e Peter Cramton, due prominenti teorici delle aste. A parte il fatto che le aste potrebbero richiedere troppo tempo, il problema principale è che quando esiste informazione asimmetrica in queste aste c'è il rischio che al compratore vengano rifilate, ad un dato prezzo, proprio le MBS che valgono meno, quelle che raggruppano mutui più in sofferenza. Ausubel e Cramton suggeriscono pertanto di specificare il tipo di security il più possibile (ossia, fare molte differenti aste e non una singola grande asta). Consigliano inoltre di specificare in anticipo che le securities comprate dal tesoro verranno rivendute in un dato ammontare di tempo, e che le banche venditrici verranno multate se i prezzi scenderanno. Per esempio, supponiamo che il Tesoro compri da Chase una MBS con valore nominale 100 a un prezzo di 30. Se i mutui che stanno dietro la MBS non falliscono e i pagamenti continuano, tra un anno la MBS varrà di più. Se invece i pagamenti si interrompono la MBS varrà meno, e il tesoro sospetterà che Chase sapesse che tale MBS era a rischio ed ha tirato un bidone. La proposta di Ausubel e Cramton è che in tal caso il Tesoro rivenda la security con un'altra asta e chieda a Chase di pagare almeno per parte della riduzione di prezzo. Non so se questo meccanismo verrà adottato, ma è un buon modo di ridurre il problema di informazione asmmetrica.

Quelli che il problema è dare alle banche nuovo capitale.

Se il Tesoro riesce veramente a comprare a buon prezzo le MBS questo può non essere sufficiente a risolvere il problema. Dopotutto, la crisi è nata dal fatto che queste MBS non le vuol comprare nessuno e potrebbero veramente avere un valore molto basso. In tal caso l'acquisto governativo delle MBS, pur costando poco al contribuente, non risolverà il problema della sotto-capitalizzazione delle banche. La tentazione - del Tesoro e delle banche - è quella di risolvere il problema pagando le securities un prezzo sufficientemente alto. In risposta, vari osservatori hanno suggerito di affrontare il problema in modo diretto, mediante emissione di nuovi titoli sottoscritti dal Tesoro a prezzi di mercato. Lucien Bebchuk di Harvard ha scritto un paper in tempo reale sulla questione, riassumendolo poi sul Wall Street Journal. Una posizione simile è stata espressa da Glenn Hubbard, Hal Scott, e Luigi Zingales (Hubbard era candidato alla Fed, ma invece Bush preferì Bernanke; se non lo avete ancora visto guardatevi questo divertentissimo video) i quali, sostanzialmente, osservano che, dati gli enormi problemi di informazione asimmetrica nell'acquisto delle MBS, può essere più semplice e conveniente acquisire direttamente le banche anziché parte dei loro assets. Argomenti simili appaiono in un articolo a 5 firme (Diamond, Kaplan, Kashyap, Rajan e Thaler) di un gruppo economisti di Chicago BS. Un approccio simile venne seguito in Svezia, nel 1992, a fronte di una crisi bancaria analoga a quella osservata oggi negli USA.

Zingales ha anche suggerito un approccio più radicale: il governo dovrebbe intervenire d'imperio trasformando i debiti delle banche in capitale proprio, adottando di fatto una procedura di bancarotta accelerata. Questo risolverebbe i problemi di capitalizzazione delle banche senza alcun costo per i contribuenti.

Ovviamente dare soldi alle banche crea importanti problemi di moral hazard, per cui se l'operazione viene fatta occorre evitare che gli attuali managers e azionisti delle banche ne traggano profitto. Molti managers hanno perso il posto, per gli azionisti la ''punizione'' dovrebbe essere la sospensione dei dividendi. Molti degli interventi sopra citati affrontano il problema. Christopher Dodd, senatore democratico capo del Banking Committee, ha prodotto un piano alternativo a quello di Paulson che incorpora alcune di queste idee. Il risultato finale sembra essere un compromesso tra i due piani (ricordate che i democratici hanno la maggioranza sia al Senato che alla Camera).

Quelli che propongono altre soluzioni.

Nouriel Roubini - il quale da tempo sostiene che, a causa del livello di indebitamento delle famiglie, il problema è ancora più grave ed esteso di quanto oggi appaia - ha proposto un piano in 10 punti. Oltre all'idea di ''debt for equity'' discussa nel punto precedente, Roubini propone un intervento a favore delle famiglie indebitate, in modo da evitare il risorgere di fenomeni di insolvenza in altri settori, come ad esempio le carte di credito.

Infine, un'ultima variante proposta da Jeff Ely, un micro theorist di Northwestern, va come segue: se i mutui sono la radice del problema, perché non intervenire direttamente su di essi? I soldi del tesoro possono essere usati direttamente per acquisire i mutui in sofferenza; il governo si sostituisce ai mutuatari, acquisendo la proprietà delle case e lasciando gli occupanti dentro in affitto. Questo ridurrebbe i problemi sul lato dei mutui e alla fine aiuterebbe anche le banche. Michele (che continua a promettere un terzo intervento che non spunta mai) ha proposto la stessa cosa l'altro giorno, in un suo commento.

A mo' di conclusione.

Un accordo sul piano sembra essere vicino, ed è atteso che vari elementi del dibattito emerso in questi giorni verranno incorporati. A quel punto probabilmente inizierà una riflessione più attenta sulle cause che hanno portato alla crisi. Inoltre, quasi tutti affermano che l'attuale regolamentazione degli intermediari finanziari è insufficiente, ma non sembra che ci siano idee molto chiare su come riformarla. Si tratta quindi di un tema destinato a essere discusso in abbondanza.

di sandro brusco

www.noisefromamerika.org

1 commento:

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